L’esagerazione continua ottiene l’effetto contrario: non sollecita l’attenzione ma la distrazione.
Nessuno sembra più sicuro di quello che dice, e ogni affermazione è ossessivamente relativizzata da «in qualche modo», magari con la proposta di «sedersi intorno a un tavolo».
Una povertà di linguaggio è segno di una povertà di pensiero? Ha ragione il Nanni Moretti di «chi parla male pensa male?»
Ho scoperto che anche Camilla Cederna, già negli anni ’80 era esasperata da un linguaggio giornalistico sempre sovraeccitato. Su De Gustibus (Mondadori), scrive:
“Quello che fa impressione, per i giornalisti e i politici continua a non essere altro che «la punta di un iceberg», e tutto è diventato «selvaggio» (lo sciopero, si capisce, ma anche l’autobus, il timone, l’aquila, la saracinesca, il dollaro e perfino l’ugola).
Ogni cosa è diventata «perversa » (l’ipotesi, la logica, lo strumento, l’attenuante), non manca mai un personaggio o una situazione che non sia «nell’occhio del ciclone», tutti «si fanno carico» di qualche cosa (di iniziative, di possibilità di appello eccetera), le industrie, per la massima parte, sono «decotte», è un po’ decaduto «lo sfascio», ma infuria la «corruttela», «il polverone», «il caos»; non si fa che andare «allo sbando».
Poi ci sono le “vere e proprie” (sic) distorsioni di significato: come “serioso” a “valore aggiunto“. Distorsioni di significato e banalizzazioni imposte dall’uso improprio, diventato comune e di fronte al quale anche l’Accademia della Crusca ormai si arrende (ho verificato).
F. D’I. & staff FirstMaster
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