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Content editing, un’intervista

content editing

Una chiacchierata tra amici sul content editing di una produzione seriale di romanzi fa emergere una prospettiva utile agli scrittori, con indicazioni importanti per migliorare.

Antonello Ruggieri: come hai iniziato a lavorare nel content editing?
Claudio Torrella: casualmente, per una fortunata concomitanza. Neanche lo chiamavamo content editing, ma revisione. Revisione redazionale.
Per noi tre, e cioè per me per Palma e Boffi, due dei direttori di produzione della Curcio (Armando Curcio Editore, ndr), si trattava infatti di revisionare le traduzioni di romanzi di genere, con molta libertà di intervento, anche perché non c’era tempo di discutere, dovendo mandare ogni giorno un nuovo titolo in edicola.

Uno al giorno? Cioè 360 l’anno?
Sì, erano romanzi con la periodicità dei quotidiani! Curcio era primo nella distribuzione in edicola, oltre che uno dei principali editori italiano, con fatturati miliardari realizzati con libri e fascicoli che in edicola costavano pochissimo. Naturalmente, c’era una riserva di titoli pronti per compensare qualche lungaggine. Era una grande organizzazione, e lavoravano in uno delle fantasiose ville del quartiere Coppedè (come un Gaudì, ma a Roma, ndr). Penso che la storia di Armando Curcio sia anche più bella di quella di Arnoldo Mondadori.

Cioè?
Sì, perché la storia della Mondadori è una storia di successo imprenditoriale, la ricerca della ricchezza da parte di un ragazzo che aveva patito la povertà. Invece Armando Curcio ha una storia da scrittore che diventa editore. Infatti nasce da una famiglia colta e così benestante da potersi dedicarsi al giornalismo e al teatro. Poi diventa editore e lancia una serie di grandi opere di tipo enciclopedico in dispense settimanali a basso costo, in edicola, dando un impulso importante alla lettura e alla cultura, anzi, alla spesa culturale.

Quale era il vostro compito?
Può sembrare strano, ma il nostro compito principale, assoluto, era di ricondurre tutti i romanzi a 148 pagine stampate.

Ma non era più semplice aumentare le pagine?
No. Perché ogni titolo veniva stampato in più di 60.000 copie, quindi in rotativa. E anche oggi, quando si stampa in rotativa, bisogna rientrare in un numero prefissato di pagine.

Allora potevate ridurre il corpo del testo, o no?
No, perché l’editore voleva che le pagine fossero sempre comode da leggere, quindi corpi solo da 11, 11,5 o 12.

Quali interventi potevate fare sui testi?
Per rispettare questi vincoli si poteva intervenire sulle digressioni e abbreviare dialoghi e descrizioni. Si capisce bene quando un autore cerca solo di aumentare la paginazione, a scapito della narrazione e della suspense. 

Quindi il lavoro di content editing era soprattutto di sottrazione?
Non solo. Si facevano anche altri adattamenti, ma effettivamente si toglievano tante righe e paragrafi. Comunque senza danni, anzi: sottraendo l’inutile si ottiene un testo migliore e l’azione è meno diluita.

Quali erano gli altri interventi?
Tanti interventi minimi ma utilissimi per aumentare la piacevolezza della lettura. O per non deludere il lettore con incoerenze tra personaggi e azioni. Serve molta attenzione alla coerenza dei personaggi. Un egoista non può diventare generoso solo perché è utile per la trama. La storia perde di credibilità e il libro perde il lettore, con espedienti di questo tipo.
Però un egoista può fare un gesto di generosità e questa sorpresa appassiona il lettore. Possono bastare poche parole per spostare il comportamento di un personaggio dal piano caratteriale (fisso) a quello comportamentale (variabile). Basta scrivere «per questa volta», «per una volta» o «per te, solo per te» per cancellare un errore e aggiungere contemporaneamente una sorpresa piacevole per il lettore.

Quali altri interventi servivano spesso?
Ai dialoghi ho già accennato. Poi, nei passaggi importanti si sostituivano gli aggettivi più banali con tre o quattro parole più significative. Insomma, è la vecchia regola che raccomandava «show, don’t tell», perché al lettore, anche al più semplice dei lettori bisogna dare il modo di interpretare, immaginare. In due parole, bisogna dargli il modo di “partecipare alla storia”.
A. Ruggieri, FirstMaster

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