Milano – Ventuno protagonisti del giornalismo italiano danno su Prima Comunicazione (da oggi in edicola o in digitale), la loro opinione sul futuro dell’informazione, su Internet che fa saltare le intermediazioni e mette in discussione il ruolo dei giornalisti, sul rapporto con i poteri dell’economia e della politica.
Quello che si coglie dal giro di opinioni è più una preoccupazione verso la crisi politica, più che verso il terremoto Internet, di cui si parla molto. Forse perché la perdita di credibilità della politica produce seri problemi di temi e di credibilità della stampa-portavoce.
Ecco alcuni passaggi degli interventi più significativi sul piano professionale.
Toni Muzi Falconi, senior counsel di Methodos: “E’ certo vero che nel nostro Paese il giornalismo come professione attraversa una fase di discontinuità e richiede un sostanzioso processo di reintermediazione. Ma le soluzioni sono già note e, almeno in parte, sono state percorse in altre parti del mondo. Il dubbio è circa la consapevolezza della questione da parte degli stessi giornalisti italiani insieme all’assenza di punti di riferimento autorevoli nell’associazionismo”.
Peppino Ortoleva, docente di storia e teoria dei media, università di Torino: “La condizione precaria di molti lavoratori dell’informazione, giovani e no, è una catastrofe sociogenerazionale che va ben al di là del giornalismo; i suoi costi li stiamo vedendo ora, in piccola parte li vedremo tra quindici o vent’anni, e non si tratta solo di un problema di qualità dell’informazione, ma potenzialmente di desertificazione di molti aspetti importanti della vita giornalistica, che non è fatta solo di grandi testate o di prime pagine”.
Enzo Mauro, direttore di ‘Repubblica’: “(…) È complicato capire che indirizzo dare alla risoluzione dei problemi, e quindi è complicato fare i giornali in una fase di incertezza dove c’è meno ideologismo. (…) Comunque, io non sono pessimista. Se sei pessimista non puoi fare un giornale, perché il giornale crede di raccontare il presente, ma in effetti è una finestra sul domani”.
Ferruccio de Bortoli, direttore del ‘Corriere della Sera’: “Purtroppo in Italia si parte sempre dall’idea malsana che il giornalista sia prezzolato, che faccia parte di un gioco. Bisogna sempre dimostrare che fai bene o male un mestiere utile alla società e non sei solo un male necessario, come pensano anche degli azionisti del mio giornale. È un’insofferenza che parte dalla convinzione che il giornalismo sia strumentale a qualche cosa e a qualcuno: se non lo sei ai loro interessi, sei al servizio di altri. Eppure stai facendo solo il tuo mestiere”.
Enrico Mentana, direttore del ‘TgLa7’: “I giovani non entrano nelle redazioni e se c’è da integrare qualcuno si ricorre alle liste dei disoccupati. Andando avanti sarà peggio. Questo è il nostro problema. Inoltre, finita questa nostra generazione, finiranno anche contratti collettivi difficilmente sostenibili. Per il resto, in Italia i poteri non sono così forti da fare nemmeno il solletico ai giornalisti”.
Daniela Hamaui, direttore di ‘D la Repubblica’ e direttore editoriale dei periodici di ‘Repubblica’: “I giornalisti sono stati vissuti come una casta, talvolta come servi del potere e non come i controllori del potere. Allora chiediamoci perché non viene riconosciuto il lavoro di tanti giornalisti che costa fatica, e a volte rischi personali, per fare inchieste serissime che in tutti i campi portano alla luce scandali o verità scomode ma inoppugnabili”.
Andrea Santagata, amministratore delegato di Banzai Media: “Affermare che l’informazione è sotto attacco mi sembra un concetto riduttivo. Anche l’informazione ha le sue colpe, perché non sa più raccontare il Paese. I giornalisti dovrebbero rimettersi in discussione ma non lo vogliono fare. Uno dei meriti della Rete è proprio quello di costringere i giornalisti a mettersi in discussione”.
Bruno Manfellotto, direttore dell’‘Espresso’: “Penso che i poteri per un verso siano meno forti di come ce li immaginavamo venti o trent’anni fa, ma sono sicuramente più diffusi perché si mescolano con i poteri politici. C’è insomma un corto circuito istituzionale tra affari, politica ed economia che rende il potere più forte e più invasivo, con maggiori pretese e maggiori arroganze. Ma anche questo per chi fa questo mestiere non mi pare sia una novità”.
Mario Calabresi, direttore della ‘Stampa’: “La politica di oggi cerca di vendere ai cittadini l’idea, come fa in modo sofisticato Barack Obama e in modo più rozzo Cristina Kirchner, che ci si rivolge a loro, direttamente, senza intermediari. Ma questo vuol dire evitare le domande, il ruolo scomodo del giornalismo. L’altra faccia della medaglia è che anche noi viviamo una crisi di credibilità, come i medici, come i giudici. E la risposta sta nell’alzare il livello”.
A c. di Nicola Caruso
L’articolo integrale è sul mensile ‘Prima Comunicazione’ n. 438 – Aprile 2013