Il mondo della fotografia, in questi giorni, ha seguito con particolare attenzione la decisione dell’agenzia Reuters di chiedere ai propri fotografi freelance l’invio delle immagini esclusivamente in formato jpg. Un jpg che non fosse stato processato da un file Raw.
Come noto, quest’ultimo, contrappone all’inconveniente del maggior peso, e quindi alla più elevata lentezza di trasmissione a livello di dati, la possibilità di apportare una più ampia gamma di modifiche in fase di postproduzione con una perdita minima di qualità.
In questo caso non ci troviamo ad affrontare, una volta ancora, l’eterno dibattito che vede sul banco degli imputati i vari software di fotoritocco, Photoshop sopra tutti, nel tentativo di stabilire se sia giusto o sbagliato aumentare il seno di un’attrice per la copertina di un settimanale patinato o se allungare le gambe della modella nella pubblicità di un marchio.
Qui ci troviamo davanti alla reazione ragionata di una delle più grosse agenzie di stampa internazionali verso i nuovi scenari informativi della società così come si è evoluta, in cui è diventato più comune informarsi cliccando su link postati attraverso i social media dal nostro vecchio amico del liceo piuttosto che tramite i canali giornalistici accreditati.
Parliamo della necessità da parte dei grossi network di preservare la percezione di autorevolezza che si sono impegnati a creare nei confronti dei propri spettatori, lettori o ascoltatori. Stiamo parlando di giornalismo e non di pubblicità, dove la qualità finale del prodotto visivo non è l’aspetto più importante da considerare, ma la sua veridicità non artificiale.
Ci riferiamo al fatto che le fotografie le scattano gli uomini e gli uomini sono per loro natura individui parziali. Dobbiamo considerare quindi che le nostre opinioni si formano partendo dall’insieme d’informazioni con cui entriamo in contatto ogni giorno e che provengono da una moltitudine di fonti cui diventa difficile risalire.
Ed eccoci arrivati al punto: Reuters, così come altre agenzie, spesso a sua volta non conosce proprio benissimo i suoi collaboratori ed è a loro che si rivolge questa nuova policy, ai freelance, che può capitare rispondano efficacemente a un’esigenza momentanea, magari in un caotico teatro di guerra dove la sete di immagini d’impatto è altissima, ma che sono troppi e troppo differenti da conoscere prima di persona per effettuare un colloquio formale.
Nella mail che è stata inviata a questi freelance da un photoeditor dell’agenzia viene spiegato che il motivo del cambiamento è la necessità di aumentare l’etica e la velocità di trasmissione.
Sulla velocità di trasmissione in realtà non ci sono grandi novità. Nessun fotogiornalista che sta coprendo un evento invierà mail il file Raw alla sua redazione (non dobbiamo pensarli comodi a spedire fotografie da un ufficio con l’aria condizionata e la rete veloce). Con tutta probabilità, se ha a cuore anche il profilo estetico della questione, scatterà la fotografia in Raw per scongiurare l’eventualità che un qualche errore in fase di ripresa sia irrecuperabile, e una volta soddisfatto del risultato lo convertirebbe nel più leggero file jpg. Sarà appunto il file jpg che invierà.
Oltretutto è specificato che sono consentite delle regolazioni base, com’era scontato aspettarsi, per cui rimane possibile per migliorare l’esposizione della scena ad esempio, o rifilare l’inquadratura.
La velocità di trasmissione sembra quindi essere quasi un pretesto per calmierare la vera novità: la preoccupazione di Reuters risiede nella consapevolezza che servendosi di un così alto numero di collaboratori, cui viene spesso delegata la copertura di eventi delicati, la possibilità di cadere negli scivoloni del passato è sempre più alta.
Ecco quindi che la richiesta che venga inviato il file jpg così come acquisito dalla fotocamera e non quindi proveniente da un Raw modificato, appare magari si come un limite creativo all’estro dei fotografi, ma in questo contesto del tutto legittima e doverosa considerato che il fotogiornalismo dovrebbe avere come priorità l’esposizione in chiave visiva dei fatti e non la loro drammatizzazione posticcia, o peggio la loro esposizione viziata dalla malafede.
Milo Sciaky su Wired.it (20/11/15)
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