Ci vorrebbe un corso obbligatorio di vero italiano per cancellare ogni traccia del finto italiano dalla mente e quindi dai documenti di legislatori e burocrati. Ecco l’ultimo caso.
Legislatori e burocrati continuano ad utilizzare un vocabolario ignoto al 99,99% degli italiani per costruire frasi inconcludenti per i continui rimandi e riferimenti a qualcos’altro che rimanda ad altro ancora, con un senso finale che può sfuggire all’infinito.
Era il 2001 quando il ministro Frattini promulgò la Norma Bassanini che aveva l’intento di far capire ai cittadini le regole, le norme e le leggi che li riguardavano. Uno degli elementi della Norma era l’obbligo di scrivere i testi inglobando i riferimenti, in modo che avessero un senso compiuto. Sono passati 15 anni, e poco o nulla è cambiato.
Alla radice di questo malcostume c’è il fatto che l’italiano è stato per secoli una lingua elitaria, e l’italiano scritto era impiegato principalmente nella comunicazione tra i ceti colti e nella sfera istituzionale.
Mentre la lingua inglese si è sviluppata come una lingua commerciale, l’italiano si è ancorato alla comunicazione elitaria, tesa alla raffinatezza e per questo motivo complessa, dunque poco idonea a soddisfare le esigenze della sfera pratica e quotidiana, nella quale ha invece dominato a lungo l’uso del dialetto, semplice ma pratico.
Queste le radici di un problema che la stessa politica cerca di superare, ma con scarso risultato. Anzi, spesso neanche ci prova, come nel caso della Legge di Stabilità oggetto delle cronache di questi giorni.
Mezzo comma, un periodo di 313 parole e 42 rimandi.
Il testo Disegno di Legge di stabilità 2016, così come comunicato ai media, contiene sequenze di burocratese che anche avvocati e commercialisti hanno trattenuto il respiro all’idea di doverci fare i conti.
Tra i vari articoli e commi, brilla il comma 2 dell’art. 18, con un periodo monstre di 313 parole, da punto a punto:
«Le disposizioni in materia di requisiti di accesso e di regime delle decorrenze vigenti prima della data di entrata in vigore dell’articolo 24 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, ferme restando, nei limiti definiti ai sensi del comma 1 del presente articolo, le salvaguardie previste dall’articolo 24, comma 14, del medesimo decreto-legge n. 201 del 2011, e successive modificazioni, dall’articolo 22 del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 235, e successive modificazioni, dall’articolo 1, commi da 231 a 234, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, e successive modificazioni, dagli articoli 11 e 11- bis del decreto-legge 31 agosto 2013, n. 102, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 ottobre 2013, n. 134, e successive modificazioni, dall’articolo 2, commi 5-bis e 5-ter, del decreto-legge 31 agosto 2013, n. 101, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 ottobre 2013, n. 125, e successive modificazioni, dall’articolo 1, commi da 194 a 198, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, dall’articolo 2 della legge 10 ottobre 2014, n. 147, e dai relativi decreti attuativi del Ministro del lavoro e delle politiche sociali 1° giugno 2012, 8 ottobre 2012, 22 aprile 2013 e 14 febbraio 2014, pubblicati, rispettivamente, nella Gazzetta Ufficiale n. 171 del 24 luglio 2012, n. 17 del 21 gennaio 2013, n. 123 del 28 maggio 2013 e n. 89 del 16 aprile 2014, continuano ad applicarsi ai seguenti soggetti che maturano i requisiti per il pensionamento successivamente al 31 dicembre 2011».
Capito tutto?
Loredana Ferraris
Approfondimenti:
– Il burocratese, di Michele Cortellazzo, linguista (Treccani).
– “All’uopo” e “obliterare”: il ritorno del burocratese (La Repubblica – Cultura).